Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato

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29 Settembre 2023

Dialogo con Valentina Pazé su “Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato”

di Doranna Lupi

 

Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino e ha recentemente pubblicato Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (ed. Bollati Boringhieri), un libro ricco di spunti per riflettere sul tema della libertà.

Nelle prime righe della sua introduzione spiega che questo libro nasce dallo sconcerto che prova per “il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento mascherate e giustificate nel nome della libertà”. Sono nuove forme di schiavitù volontaria, in cui ci troviamo di fronte anche a persone che negano di essere sfruttate o che sostengono di desiderare di esserlo. Nel mercato del biocapitalismo non si mettono più in vendita solo i prodotti della fatica umana ma gli stessi corpi umani, soprattutto quelli delle donne, attraverso la prostituzione, la pornografia, la maternità surrogata. Allora, come entra in gioco la libertà quando si parla di corpi in vendita come se fossero merce? Cos’è la libertà? Di quale libertà e della libertà di chi parliamo?

Per rispondere a questi interrogativi l’autrice si è avvalsa anche di ciò le donne hanno detto rispetto all’esperienza della prostituzione o della gestazione per altri, sia quelle che l’esperienza l’hanno vissuta sia quelle che non l’hanno vissuta ma che ritengono il tema della vendita dei corpi femminili un nodo fondamentale da dipanare per il rispetto della libertà e della dignità di tutti e tutte. Da questo mondo ci arrivano testimonianze diverse ed è possibile farci un’idea ascoltando le diverse voci. Nel libro l’autrice parte da letture tratte sia da Fiere di essere puttane di M. Nikita e T. Schaffauser che da Stupro a pagamento di Rachel Moran.

 

Dopo aver ascoltato queste voci così inconciliabili tra loro, cosa dici?

 

Dico che ci restituiscono un quadro molto variegato, che è anche quello che emerge facendo un po’ di ricerca su Internet, tra blog e siti di associazioni pro e contro il sex work… Oggi anche il mondo della ricerca è diviso su questo tema, tra chi difende la possibilità che la prostituzione sia una libera scelta e chi ritiene, invece, a partire da testimonianze come quella di Rachel Moran, che la prostituzione sia per definizione “stupro a pagamento”, qualcosa di violento e disumanizzante. Come ci si comporta di fronte a questi racconti, come ci si posiziona? Una modalità abbastanza frequente consiste nel dire “il mondo è bello perché è vario”, il modo di vivere la prostituzione è del tutto soggettivo e noi non possiamo giudicare le scelte altrui e imporre le nostre personali intuizioni su ciò che significa prostituirsi. Questo è un approccio abbastanza comune, che a me però sembra insufficiente, perché fare ricerca nelle scienze sociali – ricerca di qualsiasi tipo, storica, sociologica, antropologica – significa andare oltre la semplice registrazione delle testimonianze, che vanno certo ascoltate ma anche contestualizzate, decodificate, interpretate, messe a confronto con ciò che sappiamo da altre fonti. Di certo, sulla prostituzione qualcosa sappiamo. Sappiamo che si tratta di un’attività oggettivamente pericolosa, per chi la esercita per un certo lasso di tempo, dal punto di vista fisico e psichico. Le prostitute (in maggioranza donne e in una piccola percentuale trans e uomini al servizio del desiderio omosessuale, mentre i clienti sono quasi tutti maschi) rischiano diciotto volte di più delle altre donne di morire di morte violenta. Non solo. Ci sono ricerche che ci dicono che due terzi delle persone coinvolte nella prostituzione soffre di disturbi da stress post traumatico, esattamente quelli che si riscontrano nei veterani di guerra e in chi è vittima di stupro e di altri gravi traumi. Altre ricerche insistono sul rischio di suicidio, depressione e altre problematiche psichiatriche importanti, legate tra l’altro alla necessità, per chi esercita questo “mestiere”, di attivare meccanismi psicologici di dissociazione da ciò che fa, per mantenere un’immagine accettabile di sé. Questo mi sembra che spieghi perché, alla fine, la prostituzione non può essere considerata “un lavoro come un altro”: non esistono altri lavori altrettanto pericolosi e usuranti.

 

Tu racconti che quando hai proposto all’università di discutere di prostituzione, maternità surrogata, velo islamico, il dibattito in aula è stato molto acceso. Ma in quell’occasione si è anche rivelata la difficoltà di andare oltre l’idea di libertà espressa dalla maggior parte delle e degli studenti: che ciascuno deve poter fare ciò che vuole, che la libertà è il valore supremo e l’autorealizzazione individuale l’unico obiettivo da raggiungere.

A ben vedere questa sembra l’idea che sta dietro al nuovo significato dato dalle giovani femministe al diritto all’autodeterminazione delle donne: libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, anche di metterlo in vendita, in quanto imprenditrici di sé stesse. Questo può aiutarci a spiegare come mai in molti ambienti, anche a sinistra, nonostante la maggior parte delle donne che mettono in vendita i loro corpi siano povere e, quindi, nonostante la disuguaglianza che c’è tra i soggetti coinvolti in questo mercato, si sia arrivati a pensare alla prostituzione e alla maternità surrogata in termini di nuovi diritti da legalizzare e regolamentare?

 

Certo, c’è una sinistra che ha accettato i principi del neoliberalismo e c’è un femminismo neoliberale. Che cos’è il neoliberalismo? È una concezione non solo dell’economia, ma del mondo, che consiste nell’estendere la razionalità del mercato all’intera società e nel considerare gli individui come “imprenditori di se stessi”, in perenne competizione tra loro. In questa chiave sicuramente il corpo può essere inteso come un oggetto di cui sono proprietario, o proprietaria, e da cui posso ricavare qualcosa.

Quanto alla domanda “che cos’è la libertà?”, la risposta più semplice è anche quella più intuitiva: “poter fare quello che voglio”, nell’assenza di divieti e obblighi. Ma questa è la libertà dello stato di natura di Hobbes, è la libertà del lupo di mangiare l’agnello. In contesti in cui non esistono obblighi né divieti siamo tutti liberi di fare ciò che vogliamo, ma poi i forti prevalgono sui deboli. Se vogliamo uscire dallo stato di natura, e garantire i diritti dei più deboli, dobbiamo accettare qualche limite e qualche obbligo. Rispetto al tema dell’autodeterminazione a me sembra che ci sia davvero tanta confusione oggi. Che cos’è la libertà sessuale, che la nostra Costituzione riconosce come un diritto fondamentale? È il diritto a esprimere la propria sessualità come si vuole, con chi si vuole, ma non è il diritto di vendere servizi sessuali. I diritti fondamentali sono per definizione inalienabili, imprescrittibili, indisponibili. Non sono in vendita.

Quando parliamo di prostituzione, o anche di gestazione per altri, stiamo parlando di un altro genere di libertà: la libertà di iniziativa economica, che è anch’essa riconosciuta dalla nostra Costituzione, ma entro certi limiti. L’articolo 41 dice che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quando si usano, in relazione alla prostituzione o alla maternità surrogata, slogan come “il corpo è mio e lo gestisco io” sì fa veramente confusione, perché in questo caso non è in gioco il diritto ad autodeterminarsi in campo sessuale e riproduttivo, ma l’esercizio dell’autonomia negoziale entro la sfera del mercato, dove si incontrano soggetti diseguali. In questo contesto, la legge deve proteggere i soggetti deboli perfino da se stessi, perché il soggetto debole può essere tentato dal mettersi in vendita. Questo ce lo spiegava già Marx nel Capitale, quando invitava gli operai a lottare per ottenere “una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale”.

 

Dove è in gioco qualcosa di inaccettabile spesso una buona strategia è un processo di abbellimento della realtà attraverso la sanificazione del linguaggio. La prostituzione è diventata lavoro sessuale, la tratta lavoro sessuale forzato, i papponi dei grandi bordelli in Germania sono diventati manager, il traffico della pedofilia lavoro sessuale minorile. La maternità surrogata è diventata gestazione congiunta e solidale. Perché, ti chiedi nel libro, facciamo fatica a chiamare le cose con il loro nome? Cosa c’è di inaccettabile nella prostituzione e nella maternità surrogata da richiedere questo processo di trasformazione del linguaggio? E a vantaggio di chi?

 

Le parole sono importanti ed effettivamente oggi intorno al linguaggio usato per nominare questo fenomeno c’è un conflitto durissimo. Ce lo dicono i titoli di libri come Sex work is work, oppure Sex work is not work. E capita di assistere a discussioni accesissime sul tema: “la prostituzione è lavoro o non è lavoro? Che cos’è?”. Sembra talvolta che se ne faccia quasi una questione ontologica… Ma naturalmente questo tipo di approccio non ha senso. La prostituzione è, diventa, dal punto di vista giuridico, ciò che noi vogliamo che sia. È un lavoro là dove il diritto la inquadra in tal senso. Quando, prima della legge Merlin, esistevano le “case chiuse”, la prostituzione era un lavoro anche da noi. Chi dice “sex work is not work” evidentemente esprime una posizione normativa: afferma che la prostituzione non dovrebbe essere considerata come un lavoro. In Germania è passata una legge, nel 2002, che ha depenalizzato l’induzione, il favoreggiamento, lo sfruttamento della prostituzione. Lì il pappone è diventato un imprenditore come un altro, che organizza il lavoro dei suoi (ma soprattutto delle sue) dipendenti. In Italia non è così: la prostituzione non è un lavoro, e non è neanche un diritto. Su questo dobbiamo capirci bene. Nel nostro paese prostituirsi non è vietato, è lecito. Esiste quindi la libertà di prostituirsi, intesa come libertà di fatto, ma non esiste un diritto a prostituirsi riconosciuto da una norma giuridica. Se esistesse, esisterebbe il dovere correlativo di non ostacolare, e anzi di promuovere, il suo esercizio. Qui da noi non è così.

Questa è stata la scelta della Senatrice Merlin, parlamentare socialista, che ha scritto nel ’58 una legge che a me sembra ancora valida nel suo impianto di fondo (anche se poi qualche correttivo si può immaginare) perché profondamente rispettosa nei confronti delle donne. La legge Merlin non prevede nessun tipo di etichettatura, nessun tipo di registrazione o visita medica obbligatoria, dalle implicazioni umilianti e stigmatizzanti, che erano previste nelle “case chiuse”. Non vieta la prostituzione, ma vieta e punisce chiunque si avvantaggi della prostituzione altrui. Oggi c’è chi vorrebbe superare questa legge. Nella scorsa legislatura c’erano 22 proposte di legge depositate in Parlamento, quasi tutte orientate a depenalizzare le “condotte parallele”, ossia lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento. Leggi in genere difese in nome della libertà delle donne, quando in realtà mirano a riconoscere la libertà di chi lucra sulla prostituzione altrui.

Tornando alla questione delle parole, sono diverse anche in riferimento a quell’altra pratica, oggi molto contestata e oggetto di dibattito, che è la maternità surrogata (o “utero in affitto” o “gestazione per altri”: bisogna vedere come chiamarla, per l’appunto). A me non piace la formula “gestazione per altri” perché mi sembra che isoli il momento della gestazione, lo presenti come qualcosa di impersonale, disincarnato, come se non ci fosse sempre una donna, una madre, che porta avanti la gravidanza. Quindi preferisco parlare di “maternità surrogata” (anche se, per comodità, mi capita di usare anche la formula gpa). Di che cosa si tratta? Della possibilità, dischiusa dalle moderne tecnologie mediche, di scomporre il processo procreativo rendendo possibile che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna l’utero. Quest’ultima si impegna, per contratto, a farsi impiantare uno o più embrioni prodotti in laboratorio e a portare avanti una gravidanza, per poi partorire e consegnare il bambino o la bambina ai “committenti” (detti anche “genitori intenzionali”). A proposito di “neolingua”, questa donna il più delle volte viene chiamata “portatrice”, parola un po’ curiosa perché essere incinta non è proprio come portare un pacco; il bambino è dentro di lei e per venire al mondo deve essere partorito, aspetto di cui ci si dimentica molto spesso quando si parla di questo tema.

Anche sulla maternità surrogata è interessante notare che esistono racconti diversi. Ci sono donne che raccontano la loro esperienza in termini drammatici, dicendo di aver sofferto molto quando hanno dovuto separarsi del bambino, pur avendo firmato un contratto in cui inizialmente si rendevano disponibili a farlo, e donne che sostengono di avere liberamento scelto di diventare madri surrogate e di essere riuscite a vivere con distacco la gravidanza. Molte insistono sulle motivazioni altruistiche che le avrebbero guidate, sul desiderio di “donare” un bambino alle coppie infertili.

 

Il dono è entrato prepotentemente nella retorica per giustificare tutta una serie di transazioni. È il caso anche della maternità surrogata. Ma quando ci scambiamo dei doni tra di noi non firmiamo un contratto, non c’è un principio legale che regola lo scambio, non ci sono rimborsi, agenzie di intermediazione, consulenti legali, blog e marketing. Semplicemente c’è il nostro scambio, che sta nella sfera delle relazioni umane e, come per il sesso, è una dimensione esclusivamente relazionale. Uno dei tuoi capitoli si intitola: la libertà di donarsi e di donare. In che senso possiamo intendere questa libertà?

 

In teoria è facile distinguere la forma commerciale della maternità surrogata da quella altruistica: nel primo caso si prevede un compenso, nel secondo un semplice “rimborso spese”. In pratica il rimborso va ben oltre le spese che comporta una gravidanza e la sua entità è del tutto equiparabile ai compensi previsti per la gpa commerciale. Perché allora insistere nel qualificare l’attività della madre surrogata in termini di dono? A me pare che le retoriche del dono si spieghino con il bisogno degli imprenditori del settore, per un verso, e delle stesse donne che si prestano a questa attività, per un altro, di raccontarsi, e raccontare, qualcosa di diverso dallo scambio commerciale. E tuttavia – come accennavi – c’è un contratto che le vincola, che stabilisce cosa possono e non possono fare, quali farmaci devono assumere, a quali regole dietetiche devono attenersi per il bene del feto che ospitano nel loro utero… E c’è, soprattutto, l’obbligo finale di consegnare il bambino a coloro che lo hanno “commissionato”. Nel Regno Unito si prevede la possibilità che la donna cambi idea, ma si tratta di una possibilità più teorica che reale. La decisione della donna di tenere il bambino diventa efficace solo dopo sei settimane dal parto; nel frattempo il bambino è già stato affidato alla coppia dei “genitori intenzionali” e, quando il giudice si pronuncia, di regola lo assegna a loro, nel suo “superiore interesse” a essere cresciuto in una famiglia più benestante di quella della madre naturale. Ma se è un dono, come mai sono sempre donne di ceto medio-basso e di scarso livello di istruzione, disoccupate o lavoratrici precarie al momento della stipula del contratto, a rendersi disponibili? Questa è una domanda che dovremmo farci…

C’è poi ciò che raccontano gli imprenditori del settore sulla necessità della “formazione” della madre surrogata. Leggendo questa letteratura si scopre che madre surrogata non si nasce ma si diventa, attraverso un percorso diverso a seconda dei contesti. In India le donne, poverissime, vengono ricoverate in ostelli, nei quali vivono per tutto il periodo della gravidanza, e qui viene detto loro che sono uteri e soltanto uteri, e che l’utero è come uno spazio vuoto, una casa che può ospitare i figli degli altri. Queste sono veramente delle narrative che ci rimandano indietro, alle origini della nostra civiltà, quando nelle Eumenidi di Eschilo il matricida Oreste viene assolto perché la sua colpa non è così grave: in fondo i figli li fa il padre, non la madre, che è solo il contenitore del seme paterno.

In altri paesi le retoriche cambiano, ma fino a un certo punto. In Israele, dove pure questa pratica è consentita, si invitano le madri a non toccarsi la pancia quando il feto incomincia a muoversi, per evitare che si stabilisca l’attaccamento tra madre e bambino, che tuttavia – come sappiamo – ha una base ormonale e può venirsi a creare comunque. Di qui tutta una serie di tecniche e strategie messe in atto dalle agenzie per evitare questo rischio. Negli Stati Uniti il modello cosiddetto “aperto” di gpa mira a deviare l’affettività della madre surrogata dal bambino che ha nel ventre alla coppia di committenti: li si invita a conoscersi, a diventare amici, si prevedono gruppi di auto-aiuto con altre madri surrogate per il sostegno reciproco, e una consulenza psicologica obbligatoria. “Ma non era una questione di libera scelta? – si è chiesta Daniela Danna – di autodeterminazione? Perché allora l’affiancamento di una psicologa?”. Volendo far lavorare gli psicologi, aggiunge, potremmo pensare piuttosto a un sostegno psicologico alle coppie infertili…

Al di là della provocazione, qui bisognerebbe aprire una riflessione sul desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali e, più in generale, sul rapporto tra desideri e diritti. Dovremmo chiederci se ogni nostro bisogno o desiderio possa essere trasformato in un diritto, in presenza del quale sorge in qualcun altro un dovere corrispondente. Con riferimento alla maternità surrogata, il punto è che non stiamo parlando del diritto di accedere a una tecnica di procreazione assistita, ma a usare il corpo di una donna. Bisognerebbe anche riflettere sul fatto che ci sono tanti modi di essere genitori, anche al di là della genetica. Su questo tema c’è oggi un grande dibattito all’interno del mondo Lgbt, diviso tra chi guarda con favore alla gestazione per altri e chi propone, in alternativa, di rivendicare il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, o comunque di riflettere su altre forme di genitorialità “sociale”. Questo tenendo presente che oggi la richiesta di questo tipo di pratica viene in gran parte da coppie infertili eterosessuali.

 

Come mai per quanto riguarda la prostituzione e la GPA sei favorevole ai divieti, sei per limitare legalmente il favoreggiamento, l’induzione, e non sei per la liberalizzazione, mentre per il velo islamico sei contraria a qualsiasi divieto?

 

Io ho provato a costruire un ragionamento attorno a tre casi diversi tra di loro: quando parliamo di prostituzione e maternità surrogata ci confrontiamo con la sfera del mercato; quando ragioniamo di velo islamico entriamo in una sfera diversa. Nel caso del velo le leggi francesi vietano sia l’hijab nelle scuole sia il velo integrale nei luoghi pubblici. Penso invece che non si dovrebbero prevedere divieti, perché stiamo parlando non di libertà di iniziativa economica, e quindi di mercato, ma di libertà di espressione. Questo non significa che non ci siano pratiche problematiche: in particolare il velo integrale suscita inquietudine e molti interrogativi. La psicologa Silvia Bonino ha scritto cose interessanti proprio sulle implicazioni del velo integrale, come il burqa, che coprendo persino gli occhi fa venir meno la possibilità di comunicare attraverso lo sguardo, limitando le relazioni umane. Rimane il fatto che un divieto, in questo caso, rischia di avere effetti controproducenti. Banalmente, se vieto alle donne velate di frequentare luoghi pubblici, ciò che probabilmente otterrò è che restino ancora più confinate entro le mura domestiche… Quindi, riassumendo, sul piano dei principi la libertà di espressione è altra cosa rispetto alla libertà economica. Quest’ultima può e deve essere limitata per difendere i lavoratori dalle pressioni del mercato, prevedendo ad esempio il divieto di rinunciare alle ferie. La libertà di espressione, invece, è tendenzialmente inoffensiva e va limitata solo in casi molto particolari. Questo sul piano dei principi. Sul piano pragmatico, ritengo che le leggi francesi sul velo, che sono state scritte in nome della laicità, falliscano nel loro obiettivo. Con questo voglio dire che il velo non va vietato, ma neanche imposto, mi sembra ovvio…

 

L’ultimo capitolo del tuo libro si intitola “La libertà e le sue sorelle dimenticate”. In realtà la triade liberté, égalité, fraternité avrebbe dovuto essere fin dall’inizio della rivoluzione francese una quadriade: libertà, uguaglianza, fraternità e sorellanza. Le donne, infatti, erano fuori dal contratto sociale e Olympe de Gouges ha provato a inserirle nel 1891 con la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma i fratelli rivoluzionari non erano ancora pronti e la sua libertà di pensiero le è costata il patibolo. I fratelli, anche i più illuminati, hanno tenuto ben stretto, per più di un secolo, il loro diritto ad accedere ai corpi delle donne attraverso il matrimonio e la prostituzione, due capisaldi del patriarcato. Non potrebbero trovarsi proprio qui, in queste dinamiche di dominio sui corpi delle donne di stampo patriarcale, le radici di un sistema capitalistico sganciato da ogni rispetto dei corpi e della natura?

 

Per quanto riguarda la triade che dovrebbe invece diventare una quadriade, come ho detto, le parole sono importanti, hanno una storia, ed effettivamente ai tempi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino quando si scriveva “uomo” si alludeva proprio all’uomo maschio, al cittadino maschio. Detto questo, le parole poi col tempo possono essere risemantizzate, possono assumere significati diversi, e a me “fratellanza” continua a piacere. Il linguaggio ha dei limiti e in italiano non esiste il genere neutro, così di fatto il maschile ha funzionato a lungo come maschile sovraesteso, perché se diciamo “sorelle” è chiaro che stiamo parlando solo delle sorelle, delle donne, se diciamo “fratelli”, a seconda del contesto d’uso, possiamo riferirci a uomini e donne. E oggi c’è il problema che qualcuno chiede un linguaggio in grado di includere anche le persone non binarie…

Quanto alla sostanza, se per patriarcato intendiamo qualcosa che va oltre la sfera della politica e del diritto, la sfera pubblica, e investe anche l’ambito del privato e la sfera simbolico-culturale, si tratta di un tema centrale. È chiaro che nella prostituzione si esprime un certo modo di vedere la sessualità, molto misero e gretto, con una visione predatoria del maschio che vede nella donna solo un oggetto del suo piacere, e in qualche modo anche nella maternità surrogata ritornano costrutti patriarcali, sia che si rappresenti la donna come una santa, che ama rimanere incinta per donare i figli ad altri, sia che, come scrive Silvia Niccolai, la si riduca alla mera funzione biologica di “fornetto”, da impiegare per produrre bambini. Io in questo libro mi sono occupata principalmente della sfera politica, ma poi bisognerebbe interrogarsi sulla grande domanda di sesso a pagamento, che viene quasi esclusivamente da maschi. Come su ciò che si nasconde dietro al velo imposto alle donne da culture patriarcali. Io nel libro ho riflettuto più sul capitalismo che sul patriarcato, affrontando il tema della “schiavitù volontaria” in termini generali, e non solo in riferimento alle donne. Ma riconosco l’importanza dei temi da te indicati.

 

(Viottoli. 2023)

 

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