Approfittare dell'assenza

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Tutto il tempo a nostra disposizione: «Approfittare dell'assenza», la proposta della comunità filosofica Diotima.

Laura Lanzillo su "Il Manifesto" 10/01/2003

 



Continuità e intermittenze, rotture e debiti con il passato che restituiscono alla carsicità delle donne nella storia il segno di un tempo e di un agire sulla realtà scanditi dall'«imprevisto» della libertà femminile. 

Ogni libro vive di vite molteplici, diverse eppure collegate, strettamente intrecciate fra di loro. Quando leggo un libro, qualsiasi libro, narrativa o saggistica che sia, mi scopro a interrogarmi su di esso come sopra un ente vivo, non statico, ma in movimento, che mi guarda e dialoga con me e con cui io, a mia volta, scambio sguardi e parole. Ed è in questo scambio che si intrecciano le vite, la mia (le mie) e le sue. Un libro vive singolarmente, come ente autonomo; ma un libro vive anche della vita che gli ha donato il suo autore, in qualche modo dalle sue pagine scopriamo qualcosa di chi l'ha scritto; e un libro vive anche della vita che gli dona chi lo legge, che non è mai la stessa vita, ma è generata dalle sensazioni sia interiori sia provenienti dall'esterno che prova chi sta leggendo in quel momento, preciso e puntuale, proprio quelle pagine. La percezione lucida delle molteplici vite che si intrecciano in una pagina scritta l'ho provata leggendo l'ultimo volume uscito in libreria a firma della comunità filosofica femminile di Diotima (Approfittare dell'assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, pp. 224, ¬ 13,50).

È un libro complesso, non facile, e che tuttavia tiene il lettore fra le sue pagine, quasi prendendolo per mano, accompagnandolo nella lettura, per chiedergli tuttavia non un esercizio di autocoscienza, bensì una partecipazione non solo intellettuale, ma anche pratica, concreta, dunque politica. Nel leggere le pagine di Diotima, nel procedere nella lettura come nel ritornare indietro e rileggere pagine già lette, ho più volte sentito vivere quelle pagine e ne ho scoperto l'intreccio di vite, quelle singolari delle autrici che ne hanno scritto i saggi, quella collettiva della comunità di Diotima all'interno della cui continua discussione i testi sono stati elaborati, ma anche la mia vita e quella dell'epoca tragica e travagliata che viviamo in questi mesi. Un intreccio e non una somma algebrica, qualcosa cioè che spezza e rompe una visione e una lettura lineare degli eventi e delle parole che quegli eventi narrano, un qualcosa che nomino, appropriandomi della parola che Luisa Muraro usa nell'introduzione, «intermittenza», di cui la vita delle donne, di ogni donna e di tutte le donne diventa momento esemplare. Ma la parola intermittenza in queste pagine non si connota di un'idea negativa di precarietà e dunque di inaffidabilità, ma ha in sé il bagliore dell'originalità, di ciò che origina, nasce, che di nuovo ha vita, e che porta in sé l'eccesso della novità e al tempo stesso il debito verso chi lo ha fatto nascere. Con una scrittura, giova ripeterlo, che ha in sé il segno polemico della vita - che nella nostra epoca tragica, dominata dalla guerra e dalla morte, acquista la dimensione del manifesto politico -, queste autrici entrano proprio nella concretezza dell'azione politica, riflettendo su un tema, quello della tradizione, classico nella riflessione filosofica, e che tuttavia Diotima affronta operandone un significativo spostamento lessicale. Per il punto di vista femminile non è nella continuità che si dà tradizione, ma nella sua assenza e nel suo silenzio, che solo se tale si rivela parlante, cioè si ancora alla concretezza storica vissuta e non più artificialmente rappresentata. Un gesto di rottura, dunque, che si pone in conflitto con la tradizionale storia narrata al maschile, e a cui si affianca un ulteriore gesto di rottura: il prendere parola, il mettersi in gioco non sulla questione dello spazio (che tanto seduce i nostri compagni maschi), ma su quella del tempo. E di nuovo non il tempo storico, che, comunque si declini il rapporto passato-presente-futuro, sempre lineare e immaginato è, ma il tempo ciclico, che ogni donna pratica innanzitutto nella relazione primaria con il proprio corpo. Come ci ricorda Ida Dominijanni, «un corpo femminile sa che il tempo va periodicamente avanti e dietro, progredisce e regredisce, sfreccia e si avvita su se stesso»; un sapere questo del tempo ciclico che muta radicalmente la relazione che le donne intrattengono con sé, con gli altri, con il mondo e che determina nella riflessione femminile un diverso punto di vista su di sé, sugli altri, sul mondo e di conseguenza un diverso modo del darsi dell'azione (politica) propria, con gli altri e nel mondo.

Se il discorso pubblico e politico, che narra un quotidiano ogni giorno più tragico, è connotato dai concetti di morte, guerra, violenza legati insieme dalla disputa per lo spazio sia fisico sia culturale (leggo in questi termini il terrorismo e la guerra «infinita» contro il terrorismo, la guerra che insanguina i territori israeliani e quelli palestinesi e la tragedia del popolo ceceno come di quello curdo, le barriere innalzate contro coloro che vengono bollati come clandestini e le retoriche sullo scontro fra Oriente e Occidente e sulla presunta fine dell'Occidente, ma anche le cronache nazionali di omicidi fra familiari, di vicini, di uomini che uccidono donne, di piccoli uomini che uccidono piccole donne), la parola singolare e collettiva di Diotima oppone un discorso sulla tradizione. Il «punto di avvistamento sulla tradizione» si fa, allora, discorso su una modalità di essere e fare tradizione che è differente dalla tradizione maschile del potere che ha ed è tradizione perché domina attraverso modalità di assimilazione o di esclusione l'altro da sé, costringendolo al silenzio, cioè al suo annientamento. La tradizione di cui ci parla Diotima si costruisce contro il potere che sovrasta, sull'autorità che sostiene (dal basso) e che fonda le nostre relazioni, rivelandoci sia il dono sia il dovere della vita; e la tradizione diventa allora discorso sul tempo e sul conflitto che innesca ogni relazione fra individui e che, allora, non è foriero di morte, ma di vita reale. Una tradizione che è incapace di costruire e dunque di raccontare linearmente la storia delle donne e della pratica di pensiero femminile. Un'incapacità questa che però si rivela produttiva, perché non mette in scacco il femminismo della differenza - a cui la comunità di Diotima si collega -, ma gli permette di comprendere concretamente la propria differenza; di sapere - con le parole di Anna Maria Piussi - «sopportare, oggi, i vuoti, le assenze, anche le sconfitte, con una certa leggerezza [...] una volta riconosciuto come inutile fardello il volontarismo e il dover essere connessi al bisogno di durare».

Al tempo come durata (del potere) si oppone un tempo differente, un tempo che è il tempo vivo delle donne che animano il vangelo di Matteo e che ci vengono ricordate da Chiara Zamboni, un tempo che proprio perché «vissuto in una presenza carnale e orientante», quella di Gesù, è semplice e dunque «è tempo rivoluzionario e non privato». Un tempo che è anche un tempo di rottura poiché fa tabula rasa, come scrive Annarosa Buttarelli, ma che nel tradimento di quello che appare come tradizione ritrova la propria tradizione, «la sorgente della fedeltà alla madre e a ciò che sta all'inizio». Un tempo che è difficile da vivere, un tempo che richiede di mettersi in gioco, che in opposizione al discorso politico maschile, neutralizzante e normalizzante, impone di entrare in relazione, in contatto con la differenza dei corpi che ci circondano, di assumere cioè «il farsi concreto della storia». Un tempo che si chiede «ma chi te lo fa fare?». È nella stessa domanda che emerge la relazione insopprimibile e ineludibile che ci vincola al senso del presente, un presente che non è immaginato, rappresentato, ma vissuto nella comprensione del tempo che ci è sì alle spalle, ma che vive in noi come tradizione fatta di intrecci, di nodi, di debiti che il presente per farsi tale, per nascere, deve agire, cioè tagliare come si taglia il cordone ombelicale, ma che al tempo stesso non può che riconoscere come propria origine. Un tempo che è, in definitiva, tempo dell'assenza, che è il tempo - seguendo Luisa Muraro - di Diotima, la maestra di Socrate, la maestra (o la tradizione) assente, che manca, ma che la mancanza fa presente; è il tempo di Eros, il dio dell'amore, figlio di Carestia e Passaggio, un tempo dunque che c'è perché sente la mancanza, che desidera senza doversi appropriare (e dunque distruggere) dell'oggetto del desiderio, «perché l'amore fa del niente un passaggio al suo avvenimento».

Quello che emerge dalle pagine del libro di Diotima è allora un tempo «imprevisto», un tempo libero, il tempo della libertà femminile. Quella libertà che se riconosce il dono racchiuso nelle pagine di un testo della tradizione politica del pensiero occidentale, la Dichiarazione dei Diritti del 1789, di quel testo, e dunque di quella tradizione, rifiuta - come ricorda Diana Sartori - la simmetria che innesta il discorso occidentale dei diritti, fondato su una giustizia degli uguali, un equilibrio di potenze alla pari e che esclude chi a tale modello non è equiparato o non si lascia equiparare, perché diverso. Una libertà, quella femminile, che invece si dà perché dei diritti riconosce anche il rovescio, «ciò che dobbiamo nel senso del debito in cui ci pone questo nostro essere dipendenti per quel che abbiamo ricevuto alla nascita, che ci è stato donato senza che lo chiedessimo e ne avessimo diritto». Una vita e un tempo differenti quelli che animano le pagine del volume di Diotima, perché non si generano sulle parole d'ordine della paura della morte, dell'immunizzazione dal rischio, della ricerca di sicurezza e della necessità di barriere e confini dentro e fuori di noi, che alimentano il discorso politico delle odierne democrazie. Una vita e un tempo che, invece che neutralizzazione della libertà eccedente, si fanno libertà, cioè concretamente azione politica, poiché della tradizione riconoscono non il segno del passato, ma il lampo sul futuro, che si apre all'imprevisto, all'eccesso, a ciò che esce dalla norma, al nuovo; a ciò che sempre ancora continua a nascere, rinnovando, nella capacità di differire da sé che è la nascita, il gesto più rivoluzionario che il corpo della donna oppone al potere maschile.

 

Laura Lanzillo "Il Manifesto" 10/01/2003 

Casa editrice: 
Liguori